Startup o pizzerie?

«Non fondate startup, aprite pizzerie». Il monito di Flavio Briatore, accolto con curiosità, indignazione e qualche risata dagli studenti della Bocconi di Milano in occasione dell’incontro dei primi di maggio con il celebre imprenditore, può apparire certamente eccessivo. Una provocazione, tuttavia, che nasconde qualcosa di sensato. Almeno a osservare i dati di mercato: delle 1020 attività presenti nel registro delle startup italiane lo scorso luglio, almeno 22 oggi non esistono più. Tra queste, solo cinque sono state liquidate. E se il patron del Billionaire avesse ragione?

Un dato fisiologico
Il fenomeno delle startup rappresenta una speranza per il Paese, secondo molti osservatori: Francesco Saviozzi, tutor presso l’incubatore Speed Mi Up dell’università Bocconi di Milano, ritiene che queste imprese costituiscano un’iniezione di vitalità oltre che un’ottima palestra di imprenditorialità. Eppure è lui stesso, in una recente intervista, a far notare che l’80 per cento delle startup non riesce a generare i tassi di ritorno dell’investimento attesi. «Tuttavia l’elemento di per sé non è negativo», precisa, «perché è segno di un ecosistema imprenditoriale sano».

Il problema italiano
Anche per questo Federico Barilli, segretario generale dell’associazione Italia Startup, commenta seccato le esternazioni di Briatore: «Sono dichiarazioni molto inopportune. Le startup, come tutte le imprese, hanno una vita che può finire con un fallimento. Certamente hanno un rischio maggiore, anche se non sempre è così». Certo non saranno mai una panacea ai mali del Paese: «Sono una possibilità di ripensare il capitalismo italiano», spiega in un’intervista Carmelo Cennamo, docente di imprenditorialità e business planning in Bocconi. «Il problema però è la troppa burocrazia e un mercato del lavoro non preparato: da noi non esistono le professionalità capaci di lavorare in realtà di questo tipo».

Puntare su ricerca e sviluppo
E poi in Italia manca la cultura delle acquisizioni d’impresa, che permetterebbero alle piccole realtà di entrare a far parte dei gruppi grandi e già avviati portandosi dietro un carico di innovazione.
«Così», conclude Cennamo, «finisce che le idee nascono qui, ma per crescere devono emigrare. E le startup rischiano di diventare serbatoi di idee sfruttate da altri». Una via d’uscita? La segnala lo stesso docente: le nuove realtà potrebbero diventare laboratori di ricerca e sviluppo affiancati ad aziende solide. Così ne gioverebbero entrambi.

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